Concorso Neolaureati Eugenio Rosmann 2018 – Partecipanti
Tutti le tesi ricevute
Il premio dell’Associazione Ambientalista “Eugenio Rosmann” 2018 è rivolto agli studenti neolaureati e ai ricercatori universitari in materie naturalistiche e ambientali
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Inseriamo di seguito gli abstract delle tesi ricevute:
- Le proprietà forestali collettive nella Regione Veneto: modelli di resilienza o 'relitti del passato'?
Dott.sa Giulia Sbrizza
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dip. Territorio e Sistemi Agro-Forestali
Corso di Laurea in Scienze Forestali e AmbientaliLe proprietà forestali collettive nella Regione Veneto: modelli di resilienza o ‘relitti del passato’?
Il problema della gestione delle risorse e del tipo di proprietà più idonea alla loro utilizzazione è da sempre stato al centro di molti studi. Accanto alle soluzioni di statalizzazione e privatizzazione, esisteva, ed esiste, un altro tipo di proprietà: la proprietà collettiva, una forma di proprietà il cui centro nevralgico è il bene. Il fenomeno della proprietà collettiva è stato spesso considerato un retaggio del passato e subordinato alla supremazia della proprietà individuale (Ferrazza, 2009). Nel XX secolo, venne anche a definirsi una posizione estremamente critica nei confronti della gestione di tipo collettivo. Posizioni antagoniste nei confronti di questa teoria vennero ad accentrarsi nella figura di Elinor Ostrom, Premio Nobel per l'economia nel 2009. A Elinor Ostrom si deve, infatti, una delle prime concettualizzazioni della teoria dei commons (Ostrom, 1990). I sistemi di proprietà collettiva si sono sviluppati autonomamente in tutto il mondo in diverse epoche storiche; la tradizione delle proprietà comuni, specie di tipo forestale, è forte anche in tutta Italia (Jeanrenaud, 2001). In risposta agli odierni cambiamenti in ambito istituzionale, sociale ed economico che si verificano nel settore forestale, si sta sviluppando una nuova forma di attenzione nei confronti delle comunità forestali collettive, quali organizzazioni che, potenzialmente, sono in grado di coniugare cultura e valori locali di utilizzo delle risorse e i nuovi interessi turistici-ricreativi e ambientali. Attualmente, la proprietà collettiva italiana conta circa tre milioni di ettari di terreno, il 10% dell'intero territorio italiano. Di speciale interesse per questo studio risultano essere gli enti collettivi concentrati in area montana (Carestiato, 2008), in particolare, quelle comunità collettive di tradizione veneta che prendono il nome di Regole (Gatto et al., 2012b). I processi decisionali e gestionali condivisi della proprietà collettiva evitano la frammentazione e la parcellizzazione delle risorse, permettendo di ottimizzarne la gestione, di condividere e diminuire i rischi (Mckean e Ostrom, 1995). Nonostante questi vantaggi, alcuni considerano la proprietà collettiva un 'relitto del passato', incapace di affrontare le sfide poste dal cambiamento modemo. Effettivamente, le strutture di governante delle proprietà collettive si trovano oggi a dover affrontare diverse premiati, come lo spopolamento dei territori montani, l'indebolimento o la perdita del legame che univa le comunità rurali alle loro risorse, la minore disponibilità a partecipare alle attività di manutenzione del territorio. Accanto agli esempi di fallimento di alcune comunità (Kissling-Ntif, 2002), esistono tuttavia altre realtà che sono state capaci di evolversi ed adattarsi ai mutamenti sociali. La caratteristica chiave di questi enti sembra essere la resilienza, un concetto che in ambito sociale viene definito come la capacità di un sistema di assorbire i disturbi, di sopravvivere e di adattarsi alle nuove circostanze (Berkes et al., 2007). La presente ricerca si propone di analizzare l'istituzione economica della proprietà collettiva, con particolare riferimento alle Regole, nell'ottica di capire se sia un'istituzione immobile e poco attuale, a se sia capace di adattarsi ai mutamenti sociali e che, possa, quindi, perpetuarsi nel tempo. Lo studio esamina quindi le modalità di adattamento delle Regole, la velocità con cui esso avviene e rispetto a quali aspetti strutturali e sociali dell'istituzione. Infine, si é cercato di indagare come le risorse vengano utilizzate e gestite all'interno della realtà regoliera, per capire l'impatto che questa istituzione può avere sul territorio. Scopo della ricerca è quello di riuscire ad individuare delle caratteristiche di successo di questi sistemi in modo da implementare localmente una politica agro-forestale utile ai fini della valorizzazione del territorio montano e della salvaguardia territoriale.
- La tutela del re di quaglie (Crex crex L.) in Provincia di Trento. Due casi di recupero dell’habitat (Altopiano del Tesino, Alta Val di Non)
Dott.sa Paterno Claudia
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Territorio e Sistemi Agro-Forestali
Corso di laurea in Tecnologie Forestali e AmbientaliLa tutela del re di quaglie (Crex crex L.) in Provincia di Trento.
Due casi di recupero dell’habitat (Altopiano del Tesino, Alta Val di Non)Nel corso degli ultimi decenni la popolazione di re di quaglie (Crex crex L.) a livello mondiale è andata incontro ad un declino molto importante, tanto da essere classificata come SPEC 1 da BirdLife International.
La riduzione numerica della specie è provocata, per quanto riguarda l' creale di riproduzione, da due pressioni opposte. Da un lato la modernizzazione delle pratiche agronomiche che, grazie ad una meccanizzazione dello sfalcio, consente di effettuare la fienagione in modo più rapido ed estensivo, sommate alle eccessive concimazioni che permettono di anticipare tali operazioni facendole coincidere con la nidificazione della specie. Dall'altra parte vi è il problema opposto ovvero l'abbandono delle aree agricole che comporta la riduzione degli habitat prativi della specie.
La Provincia Autonoma di Trento a partire dal 2012 ha avviato il progetto LIFE+ T.E.N. con l'obiettivo di favorire lo sviluppo sostenibile sul territorio provinciale; all'interno di tale programma è stata inserita l'Azione C14 "Azione dimostrativa di tutela di specie: promozione della salvaguardia delle popolazioni di re di quaglie" con lo scopo di stipulare dei patti per la tutela della specie con i proprietari e i gestori dei prati nei quali è stata riscontrata la presenza del re di quaglie. Il presente elaborato ha lo scopo di esaminare due "aree studio" in Provincia di Trento, localizzate in Val di Non e in Tesino, per analizzare il trend di popolazione dell'ultimo ventennio e le azioni previste per il ripristino di tale aree. - La conservazione della biodiversità nelle coltivazioni permanenti e negli ambienti prativi
Dott. Giacomo Assandri
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA
Dipartimento di Scienze della Terra e dell’AmbienteSCUOLA DI ALTA FORMAZIONE DOTTORALE
MACRO-AREA SCIENZE E TECNOLOGIEDOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE DELLA TERRA E DELL’AMBIENTE
Biodiversity conservation in permanent crops and grasslands
La conservazione della biodiversità nelle coltivazioni permanenti e negli ambienti prativiLe coltivazioni permanenti e le praterie secondarie costituivano i più importanti esempi di sistemi agricoli estensivi e semi-naturali del continente ed entrambe le tipologie sono state ampiamente compromesse da intensificazione delle pratiche colturali e abbandono delle aree meno produttive.
In questa tesi è presentata una raccolta di studi sugli effetti delle pratiche colturali, dei cambiamenti di uso del suolo e della struttura del paesaggio sugli uccelli a vari livelli di scala (dal paesaggio al sito di foraggiamento) condotti in quattro tipologie di agroecosistemi permanenti: vigneti, oliveti, frutteti e prati da sfalcio.
Gli uccelli degli ambienti agricoli sono efficaci indicatori di biodiversità e molti di questi possono essere considerati come “specie ombrello”, cioè specie che possono favorire la conservazione dell’intero agroecosistema se adeguatamente conservate.
Lo scopo ultimo di questa tesi è di individuare possibili pratiche gestionali che favoriscano la conservazione degli uccelli in questi ecosistemi artificiali.
I risultati mostrano come, nelle coltivazioni permanenti, la diversità ornitica e l’abbondanza di alcune specie dipendono da una moltitudine di elementi relativi al contesto paesaggistico, gestionale e topografico-climatico. Considerando l’intera comunità, il livello paesaggistico è quello che maggiormente influenza la diversità, tuttavia anche alcuni elementi relativi alla gestione agricola hanno un effetto su di essa. Diversamente, l’abbondanza di alcune specie non è solo influenzata dalle caratteristiche del paesaggio, ma anche significativamente, o primariamente, da effetti di caratteristiche climatico-topografiche e, soprattutto, dalle pratiche colturali.
Si è anche evidenziato un effetto positivo della copertura di habitat diversi da quello dominante (es. habitat marginali) e degli elementi tradizionali (es. siepi e filari, alberi ed edifici isolati) sugli uccelli, che permettono la presenza di specie non adattate all’habitat dominante che caratterizza la matrice, verosimilmente perché queste specie non riescono a nidificare o nutrirsi nella coltivazione.
Nel corso del progetto si è investigato inoltre l’effetto dell’agricoltura biologica sugli uccelli, considerando vari indicatori e scale spaziali, senza tuttavia dimostrare alcun effetto positivo di questo tipo di gestione rispetto a quella convenzionale. Le principali cause di questo risultato riguardano il fatto che l’agricoltura biologica, a conferma di precedenti studi, ha di norma maggiori effetti in sistemi agricoli annuali e in contesti paesaggistici molto semplificati. Per rendere l’agricoltura biologica più favorevole alla biodiversità sono necessari maggiori sforzi a scala di paesaggio.
Allo stesso modo, l’abbandono in ambito agrario è generalmente considerato come negativo per la biodiversità, tuttavia, nella tesi si evidenzia che un limitato e controllato abbandono di alcune patches di oliveto in una monocoltura intensiva può favorire la capinera e potenzialmente anche i servizi ecosistemici forniti da questo passeriforme (es. la dispersione dei semi).
La biodiversità fornisce fondamentali servizi alla società e la sua perdita può profondamente minare la possibilità di aumentare sostenibilmente la produzione di cibo in funzione del predetto aumento di popolazione a scala globale. Questo studio ha permesso di sanare alcune lacune di conoscenza sulle coltivazioni permanenti e in misura minore sui prati da sfalcio alpini.
- Metalli tossici nei profili di suoli di barena della laguna di Grado
Dott. Pietro Balducci
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE
DIPARTIMENTO DI SCIENZE AGROALIMENTARI, AMBIENTALI E ANIMALI
Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie AgrarieMetalli tossici nei profili di suoli di barena della laguna di Grado
Le barene sono ecosistemi ad elevata complessità, dovuta ai diversi fattori in gioco (periodo di sommersione, salinità, tessitura, ecc.). Tra i componenti dei suoli di barena meno studiati sono i solfuri, abbondanti per via del solfato nell’acqua di mare (e delle situazioni anossiche ricorrenti) e l’inquinamento da metalli potenzialmente tossici (PTE) in particolare quelli legati ai solfuri che rappresentano una frazione poco biosdisponibile. Inoltre non ci sono metodi standardizzati per valutare la tossicità di questa frazione, nonché poco si sa sul quantitativo effettivamente presente nei suoli di laguna.
Al fine di approfondire questi aspetti, sono state individuate tre barene nella laguna di Grado, sulla base di un gradiente di contaminazione est-ovest, e diversi siti con differenti specie vegetali dominanti. Sono state misurate diverse caratteristiche chimico-fisiche dei suoli e determinati i livelli dei PTE, approfondendo con delle ulteriori analisi, la natura chimica del Hg presente. Sono state inoltre eseguite diverse prove al fine di standardizzare il metodo per la determinazione dei (SEM) metalli legati a queslla frazione dei solfuri che viene volatilizzata da trattamento con HCl..
Dai risultati ottenuti, si sono evidenziate interessanti correlazioni tra caratteristiche chimico-fisiche dei suoli e presenza di solfuri volatili (AVS), in particolare la correlazione positiva con il pH dei suoli, che sembra influenzare più di tutte la produzione di AVS.
Le analisi sul mercurio hanno evidenziato una bassa concentrazione di mercurio elementare (Hg), e la conseguente abbondanza di mercurio nelle forme cinabrico e non cinabrico, con presenze variabili a seconda dei campioni.
La standardizzazione dell’analisi dei SEM ha portato alla luce alcune problematiche nella fase di filtrazione del protocollo, ed in particolare l’influenza della tipologia del filtro (PTFE o carta) e delle tempistiche impiegate per la filtrazione.
Questo si riflette poi nella determinazione dei PTE, e quindi della valutazione della loro potenziale tossicità (rapporto ƩSEM/AVS >1) per gli organismi vegetali e animali. La concentrazione dei PTE, a parte quella del mercurio, non è risultata particolarmente elevata, sebbene appaia critica la definizione di un metodo standard e l’individuazione di gradienti specifici nei profili di suolo.
- Analisi ecologiche e paleolimnologiche in due laghi d'alta quota dell'Italia settentrionale
Dott.sa Selene Perilli
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA
Corso di Laurea Magistrale in Ecologia dei Cambiamenti GlobaliAnalisi ecologiche e paleolimnologiche in due laghi d'alta quota dell'Italia settentrionale
I laghi d’alta quota sono una preziosa componente paesaggistica ed ecologica dell’ambiente alpino e serbatoio di specie sensibili e "relitti glaciali", ma anche indicatori di problematiche di carattere globale, essendo estremamente sensibili alla deposizione di sostanze acide dall’atmosfera, al trasporto a lungo raggio di inquinanti tossici e di nuclidi radioattivi e ai cambiamenti climatici. Per queste caratteristiche i laghi alpini sono considerati ”sensori ecosistemici” per tutto l’ambiente montano e ideali laboratori naturali per la ricerca ecologica di base e per il monitoraggio degli effetti dovuti alle pressioni antropiche su ampia scala ed ai cambiamenti globali sulla qualità delle acque e sulla biodiversità.
Il presente studio si inserisce in un progetto che vede la collaborazione tra i Dipartimenti di Scienze della Vita e di Matematica e Geoscienze dell’Università degli Studi di Trieste e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valla d’Aosta (Torino, Italia). Sono stati presi in esame il Lago Dimon nelle Alpi Carniche (Friuli Venezia-Giulia, Italia nord-orientale) e il Lago Sottano della Balma nelle Alpi Cozie (Piemonte, Italia nord-occidentale), entrambi tipici laghi di alta quota di origine glaciale. Gli obiettivi dello studio sono stati: (1) caratterizzare le comunità macrozoobentoniche in relazione alle caratteristiche dei due ambienti considerati e (2) indagare gli eventuali cambiamenti avvenuti nel tempo nelle comunità tramite analisi paleolimnologiche.
I due laghi supportano comunità tipiche degli ambienti in quota, caratterizzate dalla dominanza di Ditteri Chironomidi e Oligocheti. Le comunità differiscono tra loro in relazione alle caratteristiche chimiche e fisiche dei due laghi, le quali sono strettamente legate al contesto lito-geologico in cui sono situati i bacini. Tra i principali drivers che contribuiscono a plasmare le comunità è stato possibile identificare il pH, la conduttività elettrica e le concentrazioni dei nutrienti. Le analisi paleolimnologiche, abbinate ad un sistema di datazione indiretta basato sull’analisi delle concentrazioni del piombo nei sedimenti dei laghi, hanno permesso di rilevare che il Lago Sottano della Balma ha mantenuto una condizione relativamente stabile di oligotrofia nell’ultimo secolo. Tuttavia, è emerso come le immissioni ittiche condotte per fini alieutici a partire dalla fine del secolo scorso (in ambienti naturalmente privi di pesci) hanno alterato la comunità macrozoobentonica, causando la scomparsa o la riduzione di alcuni taxa e favorendone altri, a testimonianza dell’impatto che le introduzioni indiscriminate hanno avuto in ambienti sensibili come i laghi d’alta quota.
Il presente studio ha permesso una dettagliata caratterizzazione delle comunità macrozoobentoniche di due laghi alpini, precedentemente poco o per nulla studiati, e fornisce una prima indagine sulle paleocomunità di Chironomidi di detti laghi, le quali possono fornire informazioni preziose circa i
cambiamenti avvenuti in questi ambienti nel tempo. I risultati ottenuti sono un punto di partenza per ulteriori approfondimenti, in quanto solo studi condotti su scala temporale più ampia possono fornire un quadro più completo delle intere comunità e dei cambiamenti in esse originati, siano essi dovuti a cause naturali o di natura antropogenica.
- Affrontare le sfide dei cambiamenti climatici Proposte per la gestione sostenibile delle acque nel comune di Verona
Dott.sa Chiara Brugnara
POLITECNICO DI MILANO
POLO TERRITORIALE DI MANTOVA
SCUOLA DI ARCHITETTURA, URBANISTICA E INGEGNERIA DELLE COSTRUZIONI
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ARCHITETTURAAffrontare le sfide dei cambiamenti climatici
Proposte per la gestione sostenibile delle acque nel comune di VeronaTramite l’azione combinata dei cambiamenti climatici e dell’impermeabilizzazione del suolo, il fenomeno delle alluvioni urbane si è massimizzato, trasformando i normali eventi atmosferici in catastrofiche problematiche nelle città che sono obbligate ad affrontare nuove sfide per la loro salvaguardia. In questi ambiti si muove il tema del drenaggio urbano sostenibile, come metodologia di intervento e di processo risolutivo integrato.
Il drenaggio urbano sostenibile diventa strumento di rigenerazione urbana e parte necessaria non più opzionale nel progetto di architettura. Si tratta di soluzioni che non stravolgono la composizione del tessuto urbano, ma che tramite la ridefinizione degli spazi e la realizzazione di infrastrutture verdi generano sistemi in grado di assumere la funzione di captatori delle risorse idriche, ove queste non possono infiltrarsi nel sottosuolo a causa della cementificazione.Nella prima parte della tesi, vengono indagate le cause originarie delle alluvioni urbane: alla condizione locale della necessità di sviluppare il territorio alle esigenze dell’uomo si somma il livello globale dei cambiamenti climatici e delle conseguenze che generano con la produzione di eventi climatici particolari. Alla disciplina dell’adattamento arriva in soccorso la resilienza, che oltre a fornire strumenti e occasioni di adattamento, ha una forte capacità di prevenzione. In tutto ciò, torna ad essere importante il ciclo naturale dell’acqua, con un cambiamento di rotta nella gestione delle acque: superare la tradizionale canalizzazione dei deflussi meteorici e privilegiare la rimpermeabilizzazione del suolo.
Nella seconda parte, viene realizzata una panoramica sulla gestione delle acque meteoriche nelle città fino ad oggi, con l’implementazione dei “Sustainable Urban Drainage Systems (SuDS)” e l’introduzione delle “Best Management Practices”, che si compongono di diverse opere analizzate in schede approfondite. I SUDs portano con sé la particolarità dell’approccio integrato: non è più realizzabile un progetto idrico ad una minima scala e che lavori per comparti settoriali separati autosostenuti, ma è necessario un progetto di rete diffuso che a più scale (bacino, città, quartiere, edificio) implementi anche vari piccoli interventi sul territorio. Infine, è presente l’analisi di 6 casi studi (dossier), riguardanti città che hanno adottato progetti per la salvaguardia dalle conseguente dei cambiamenti climatici.
Nell’ultima parte, viene proposto un sistema di interventi integrati per la città di Verona, che presenta l’asse idrico molto importante del fiume Adige. Fondamentale è il principio per cui il tema del drenaggio urbano sostenibile diventa strumento di rigenerazione. La soluzione proposta è la realizzazione di un sistema di soluzioni diffuse in diverse localizzazioni, coordinate in rete, che si prendono carico delle problematiche che i tradizionali complessi di gestione delle acque non sono più in grado di risolvere.
Dapprima viene presentato un sintetico inquadramento territoriale, segue una dettagliata descrizione del territorio comunale e l’analisi dei sistemi ambientale, infrastrutturale e insediativo. Successivamente è riportata una breve panoramica degli strumenti urbanistici vigenti, come il PTCP, il PAT e il PI. Con la riduzione di scala al solo territorio comunale si è potuto sviluppare l’elaborato dei temi progettuali fondamentali per i tre sistemi ambientale, infrastrutturale, insediativo. Infine, la soluzione proposta è concentrata nella porzione della “Città della Fiera” di Verona Sud, descritta mediante l’elaborato del Concept Plan.
L’ultimo capitolo “mai più senza...” riguarda la definizione di 5 strategie progettuali da utilizzare come principi per lo sviluppo dei nuovi interventi. Tra queste si è voluto evidenziare delle precise parole che legano il progetto di tesi e che possono porsi come chiave di lettura e di esecuzione.Siamo giunti ad un punto di non-ritorno in cui questo non è più sufficiente (bisogna fare di più!) il progetto deve prendersi carico del drenaggio di sé stesso, ma anche delle sue parti vicine.
- Le pinete artificiali del carso triestino
Dott. Gianluca Barnabà
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE
DIPARTIMENTO DI SCIENZE AGROALIMENTARI, AMBIENTALI E ANIMALI
Corso di Laurea in Scienze agrarie curriculum Sistemi Montani e ForestaliLe pinete artificiali del carso triestino
La storia delle pinete triestine è alquanto varia e tipica di questo territorio, ovvero l’altopiano carsico. A partire dall’età del bronzo si sono susseguiti una moltitudine di eventi in che hanno visto come principali protagonisti il bosco e l’uomo. Dalle oscure selve si è arrivata alla landa carsica per poi all’ingente opera di rimboschimento del Carso, avvenuta per mano di illuminate personalità dell’epoca.
Ai giorni odierni l’ostrio querceto e le pinete secondarie di pino nero formano il paesaggio caratteristico di queste località. Tra queste formazioni si trova Bosco Bazzoni, una pineta artificiale di pino nero impiantata nel 1886 che ai giorni nostri si presenta come una fustaia irregolare, con un piano dominante di pino nero e un ceduo misto a fustaia nel piano dominato.
Nel corso degli anni sono stati effettuati numerosi interventi colturali e, tra i tanti, il progetto del 1998 ha predisposto un taglio di diradamento proprio in Bosco Bazzoni.
I rilievi condotti in bosco sono serviti a eseguire una ricerca volta allo studio della vegetazione forestale di questo bosco. Dai dati rilevati è stata eseguita un’indagine dendroauxometrica per stimare l’accrescimento del soprassuolo. Una volta ottenuti i risultati è stato analizzato l’intervento di diradamento, per poi giungere alle conclusioni finali.
- Analisi delle tecniche di ripristino di scogliere coralline degradate
Dott.sa Verdiana Vellani
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
Dipartimento di Scienze della Vita
Corso di Laurea triennale in Scienze e Tecnologie per l’Ambiente e la NaturaAnalisi delle tecniche di ripristino di scogliere coralline degradate
Le scogliere coralline sono conformazioni carbonatiche create da organismi biocostruttori, i coralli. Tali strutture, di elevatissima importanza ecologica, determinano la presenza del 25% di tutte le specie marine conosciute ed ospitano 32 dei 35 phyla marini, nonostante occupino solo lo 0,1% dei fondali oceanici. Forniscono inoltre, grazie all’azione di protezione delle coste, alla creazione di habitat ed all’instaurarsi di complesse relazioni trofiche tra specie, ad un elevato numero di persone dei servizi, che hanno un’importanza primaria, economica e di sostentamento.
Tali ecosistemi sono però impattati negativamente da diverse attività, molte delle quali di natura antropica, che ne possono minacciare l’integrità strutturale e funzionale. Le cause principali del declino della scogliera corallina sono il sovra-sviluppo dell'area costiera, l’uso eccessivo delle risorse della stessa ed i cambiamenti climatici.
L’aumento delle temperature superficiali dei mari, l’acidificazione degli oceani, la distruzione degli habitat, l’inquinamento, l’aumento della sedimentazione e la pesca sono ancora fattori in grado di provocare una variazione nella composizione delle popolazioni di organismi ed anche un cambiamento a livello fisico e strutturale nelle scogliere coralline. Il risultato principale è quello della diminuzione della biodiversità delle specie che vivono associate a questo ecosistema.
Ciò significa cambiamenti nelle proprietà funzionali di tali sistemi quali la produttività, la resistenza e la resilienza ad eventi perturbativi. Gli eventi perturbativi che interessano tali ecosistemi stanno aumentando di intensità e sono sempre più frequenti. Per tale motivo è necessario proporre dei piani di salvaguardia e di conservazione, promuovendo la concretizzazione di attività di habitat restoration e di recupero delle aree degradate, al fine di recuperare biodiversità e servizi ecosistemici. Per le regioni di barriera considerate a rischio e per quelle interessate da progetti di restauro importante è la loro conservazione al fine di salvaguardarne la complessità ecologica.
Tali procedure da attuare sono considerate come un input iniziale nel ripristino delle connessioni nell’ecosistema, possono quindi promuoverne la positiva ripresa e lo sviluppo di questa.
Le diverse tecniche che verranno successivamente analizzate sono in grado di rendere maggiormente concreto e produttivo il restauro ambientale, facilitando e, se possibile, velocizzando quello che dovrebbe essere un processo naturale di ritorno alle condizioni preimpatto.
La successiva analisi delle metodologie di restauro dell’ambiente di scogliera prende in considerazione una serie di tecniche che sono in grado di sviluppare un ripristino dell’area in tempi più o meno lunghi. Tali progetti sottopongono ad esame aspetti diversi, dalla strategia riproduttiva del corallo, alla sua capacità di resilienza o alla velocità di crescita di questo. Sono dunque stati sottoposti a revisione in quanto si occupavano di differenti approcci. In futuro tali approcci, apportando le migliorie necessarie, potranno andare a formare una metodologia stardardizzata, dunque un modello, grazie alla loro unione. In questo momento storico non vi è ancora la presenza di una procedura che prenda in considerazione vari aspetti, dunque con maggiori probabilità di successo. Vi è inoltre la mancanza di un modello stardardizzato, in quanto il fenomeno dell’aumento del degrado è da considerarsi relativamente recente e le tecniche per contenerlo sono, per tale motivo, mancanti. Sono da promuovere, a tal fine, progetti e ricerche che possano sviluppare tecniche di ripristino altamente efficaci e di successo. - La resistenza a peronospora e oidio in vite: selezione assistita da marcatori molecolari
Dott. Giovanni Mian
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE
Dipartimento di scienze agroalimentari, ambientali e animali
Corso di laurea magistrale in Scienze e tecnologie agrarieLa resistenza a peronospora e oidio in vite: selezione assistita da marcatori molecolari
La vite è in coltivazioni da circa 7000 anni ed è una delle più importanti piante coltivate nel mondo. Per questo motivo e per le esigenze del mercato, per garantire una buona produzione di uva con una buona qualità delle stesse fondamentale è il controllo fitosanitario. In particolare, tra le molte patologie che affliggono la V. vinifera, spiccano la peronospora e l’oidio; entrambi patogeni fungini biotrofi ma molto aggressivi (Weidenbach D. et al, 2014, Feng et al. 2009, Dick, 2002). Infatti, ad oggi, in viticoltura, vengono usati il 67 % di tutti i fungicidi utilizzati in agricoltura, ricordando che la superficie occupata dalla vite è pari solo al 3,3 % di tutta la superficie agricola mondiale (Eurostat, 2007). Nonostante ciò, le perdite annuali di uva oscillano comunque da minimi del 20% a punte del 40% (Ronald e Adamchack, 2008). Inoltre, grazie probabilmente all’uso sconsiderato dell’agrochimica avvenuta nel secolo scorso, si sono selezionate alcune razze di peronospora e oidio resistenti ad alcuni principi attivi.
Questo rende la lotta a questi patogeni ancora più complessa e con un utilizzo ancora maggiore di fitofarmaci e con maggior costi d’impresa per le aziende agrarie. Inizialmente si era pensato che la coltivazione in tenuta di regime biologico e/o biodinamico con cui si escludono i prodotti chimici di sintesi potesse esser la miglior alternativa. Si è dunque usato il rame e pochi elementi per la difesa fitoiatrica. Il rame, però, non è un elemento che non presenta effetti negativi: oltre ad esser fitotossico e tossico per alcuni microrganismi è un metallo pesante che si accumula nei primi strati del suolo. Inoltre, alcune forme del rame, presentano una
notevole persistenza con conseguenti problemi di residui nei mosti, nei vini e sulle uve (P. Mantovi, 2003). Il rame è stato utilizzato in maniera massiccia e, probabilmente, sconsiderata: si era infatti arrivati ad usare 80 Kg/Ha annui di questo elemento fin quando non è intervenuto il legislatore che ha portato il suo uso a un massimo 6 Kg/Ha/anno.
La coltivazione della vite quindi, specialmente per quanto concerne la protezione contro le malattie, risulta delicata. Questo enorme uso di composti chimici apporta numerose problematiche, dal punto di vista dell’impatto ambientale ma anche da quello della salute umana, dei microrganismi, dei residui e del pericolo di selezione di ceppi resistenti dei patogeni e della riduzione della biodiversità (Quaglia et al. 2011). Le recenti normative europee infatti sono volte a far ridurre l’uso dell’agrochimica attraverso costanti ricerche in questa direzione. Numerosi sono gli studi, per identificare strategie di difesa che non comportino un elevato uso di composti chimici o studi per provare nuove sostanze meno tossiche. Si tratta però sempre di adottare una lotta con agrofarmaci di sintesi. Un metodo efficacie per controllare in maniera efficiente il problema è quello di usare le resistenze ai patogeni presenti naturalmente nelle piante. Per questo i geni di resistenza si prestano ottimamente per la creazione di varietà resistenti alle malattie in quanto codificano per importanti proteine di difesa (proteine NBS LRR) che scatenano la più forte difesa delle piante, la così detta risposta ipersensibile (Girardin et al. 2003). Purtroppo il breeding della vite ha subito un lungo periodo di stallo nel secolo scorso (soprattutto in Italia), infatti è stato portato avanti solo da genetisti pionieri e temerari. Ad ogni modo, nei scorsi decenni, è ritornato a coprire l’importanza che deve. Attualmente, il miglioramento genetico è avanzato ed a oggi tramite tecniche di biotecnologia molecolare di selezione assistita da marcatori genetici possiamo accorciare i tempi e le spese per la selezione di varietà migliorate (Wan Y et al. 2008). In particolare il miglioramento per questi tratti consiste nell’ibridazione di specie resistenti, ma non in coltivazione perché non presentano tratti agronomici e vinificatori di buona qualità, con varietà già in coltivazione. In questo modo, una volta ottenuto l’ibrido tra le 2 varietà possiamo adottare uno schema di breeding denominato “back cross”, con il quale si re incrocia il nuovo ibrido portante i geni di resistenza con la varietà già in coltivazione in modo tale che, dopo ogni generazione di re incrocio, venga recuperata una specifica percentuale del genoma appartenente alla varietà buona. Così facendo, dopo 7 - 8 generazioni di back cross, avremo una nuova varietà con i geni di resistenza di un parentale e con circa il 97% del genoma della buona varietà (Barcaccia e Falcinelli, 2006).
In base a queste motivazioni l’obiettivo di questa tesi è stato quello di ottenere varietà resistenti e con caratteri importanti per il mercato che quindi necessitino di un uso minimo di fungicidi. A tal fine si sono ibridate varietà già coltivate con varietà portanti nel proprio genoma i geni di resistenza alle malattie oppure si sono incrociate 2 varietà resistenti per ottenere individui con più geni piramidati in un solo individuo. In particolare il più alto obiettivo è quello di ottenere varietà con contemporaneamente più geni di resistenza in modo che la futura varietà presenti diverse resistenze allo stesso patogeno e resistenze contro diversi patogeni. In alcuni casi si è anche voluto unire queste resistenze a caratteri merceologici importanti, come ad esempio l’apirenia per quanto concerne l’uva da tavola.
Si sono quindi eseguiti gli incroci nel 2016 tra questi tipi di varietà, nella azienda agraria di dell’Università di Udine “Antonio Servadei” e presso la sezione sperimentale dei Vivai cooperativi di Rauscedo “Casa 40”. Dopo l’incrocio, una volta ottenuti i grappoli, si sono estratti i semi e da questi, nell’aprile seguente, sono nate le piantine che rappresentano gli ibridi frutto dei diversi incroci. A questo punto si è proseguito con la selezione assistita tramite l’uso di marcatori molecolari: il Dna è stato estratto e quantificato e successivamente con specifici primer è stata eseguita la Pcr Touchdown al fine di amplificare solo le sequenze d’interesse. In fine si è sequenziata la presenza dei marcatori collegati al gene d’interesse tramite elettroforesi capillare. I dati sono stati corretti ed elaborati e si sono ottenuti i risultati finali.
In particolare, come marcatore del gene Rpv3 inizialmente era stato utilizzato il marcatore UDV737. Questo marcatore era però omozigote per l’allele resistente (avevano la stessa lunghezza in basi) e nei diversi incroci anche i parentali non resistenti mostravano lo stesso allele non resistente della stesa lunghezza. Non era quindi possibile applicare una selezione in quanto, dalle chiamate alleliche effettuate con software geneMapper dopo elettroforesi capillare, non si potevano distinguere questi alleli nelle diverse combinazioni alleliche. Si sarebbe dovuto aspettare la fenotipizzazione. Si è deciso, quindi, di usare un altro marcatore, UDV305, che ha presentato lunghezze alleliche in paia di base diverse e quindi si sono potuti distinguere con facilità gli individui che avevano ereditato l’allele resistente da quelli che invece non l’avevano ereditato. A questo punto, avendo usato i 2 marcatori per Rpv3, di cui uno e localizzato a monte del gene e l’altro a valle, si poteva anche distinguere le combinazioni alleliche precedentemente ottenute con UDV737 effettuando un controllo incrociato. Questa casistica di utilizzo di 2 marcatori, uno a monte e uno a valle, è anche la migliore delle analisi. Infatti, più il marcatore è lontano dalla regione di interesse, maggiore è le probabilità che avvenga una ricombinazione. In particolare la probabilità è del 1% per ogni cM (centi Morgan) di distanza (Barcaccia e Falcinelli, 2006). Può quindi avvenire il caso in qui venga sequenziato ed amplificato il microsatellite marcatore, perché presente, ma che in realtà non ci sia il gene d’interesse perché ha ricombinato durante il crossing over. Una casistica simile è stata riscontrata anche per il marcatore per il gene dell’apirenia ma in questo caso, non avendo a disposizione un altro marcatore, per applicare la selezione si sono dovute scartare le combinazioni alleliche in qui non era possibile identificare quello portante il tratto apirenico. Per far ciò si sarebbe dovuto utilizzare, anche qui, un marcatore diverso oppure avere dati della fenotipizzazione per poter capire chi l’avesse ereditato.
Per ogni famiglia analizzata un grande numero di individui nella progenie ha ereditato i geni di resistenza. Questo significa che l’ereditabilità dei suddetti geni risulta essere elevata.
Il primo gene esaminato è stato Rpv3: la media della sua ereditabilità è stata del 55%, un dato che nei relativi incroci non varia di molto. Si è riscontrato però un caso eccezionale, quello dell’incrocio Vc_538. In questo caso tutti gli individui hanno ereditato questo gene di resistenza alla peronospora. Dato particolare, in quanto la segregazione che ci si aspettava era 1:1. Questo può esser verosimilmente spiegato con un’ipotesi di casualità del dato. Probabilmente avendo avuto a disposizione più individui di quelli ottenuti l’ereditabilità di Rpv3 sarebbe cambiata. Ad ogni modo il risultato della fenotipizzazione ha confermato in parte quanto
riportato dall’analisi molecolare, in quanto si sono trovati 4 individui che manifestavano sintomi. Questi sintomi però non sono stati chiari. Infatti su questi 4 individui è stata trovata peronospora a mosaico e non macchie d’olio classiche con sporulazione nella pagina inferiore. Verosimilmente, ci può esser stata una iniziale infezione successivamente bloccata dalle resistenze ereditate.
Nel caso del secondo gene di resistenza alla peronospora, Rpv12, quest’ultimo ha mostrato un’eredità del 48%. Nei singoli incroci i valori della singola ereditabilità in quella combinazione infatti non si discosta molto da questa media.
Per il gene di resistenza all’oidio Run1, la media di tutti gli incroci è stata del 45%. Anche in questo caso valori simili si sono ottenuti per ogni incrocio con una maggiore ereditabilità nell’incrocio Vc_538 (60%) e Vc_539 (65%).
In alcuni casi è stato preso in considerazione negli incroci anche il gene Ren1 (Vc_538) che ha mostrato un’ereditabilità del 70% e Rpv10 (Vc_552) che ha mostrato un’ereditabilità del 50%. Nello specifico, Ren1 ha mostrato un’ereditabilità del 25% più alta dell’altro gene di resistenza Run1 (45%) mentre per Rpv10 si è notata un’ereditabilità minore del 5% rispetto Rpv3 (55%) e del 2% maggiore rispetto Rpv12 (48%).
Ulteriormente, il gene portante il carattere dell’apirenia è stato usato in 2 popolazioni: nella prima è stato ereditato dal 45% (Vc_545) della progenie e nella seconda dal 43% (Vc_539). La media è risultata esser del 43%, un dato che non si discosta di molto da quello individuato da uno studio precedente condotto da C. Bergamini et al. (2013) in qui videro che l’ereditabilità di questo gene si attestava al 49%.
Oltre al fatto dell’ottimo risultato nel aver ottenuto molti individui resistenti in tutti gli incroci effettuati, un aspetto molto importante è che per ogni incrocio si siano ottenuti un buon numero di individui portanti diverse combinazioni di geni di resistenza ed altrettanti che hanno ereditato tutti i geni presenti nel singolo incrocio. In particolare questi sono i risultati che più vanno presi in considerazione. Ottenere varietà con piramidate più resistenze verso lo stesso patogeno e contemporaneamente più resistenze contro diversi patogeni è il risultato migliore che si possa avere. Questi individui infatti presenteranno un elevato grado di resistenza e sarà più difficile per il patogeno riuscire a superare queste barriere evolvendo tramite la selezione naturale. Questi individui con diverse resistenze piramidate sono la base di partenza per continuare con il miglioramento genetico anche per ulteriori caratteri. In questo lavoro, si sono ottenuti anche individui che portassero 3 geni di resistenza (fra peronospora e oidio, in diverse combinazioni) e il tratto dell’apirenia.
A questo punto, grazie a questi nuovi individui con le diverse resistenze piramidate, si potrà iniziare il lavoro di re incrocio (back cross) con la varietà agronomicamente valida ed alla fine otterremo una nuova varietà molto difensiva perché avrà le diverse resistenze ereditate e il genoma quasi interamente della varietà valida per i diversi aspetti. Così facendo possiamo sopperire alle diverse problematiche di impatto ambientale e sulla salute umana derivante dall’uso enorme della chimica.
L’utilizzo delle conoscenze della genetica e le moderne tecniche molecolari per ottenere varietà migliorate, come per le resistenze alle malattie, sono, quindi, i mezzi più efficaci che abbiamo a disposizione per ottenere una riduzione drastica nell’uso dell’agro chimica. Inoltre, possiamo ipotizzare di associare ai caratteri di resistenza altri caratteri per molti tratti importanti. In questo modo, coltivatori, consumatori e ambiente potranno trarre indubbi vantaggi in termini di salute pubblica e conservazione dell’ecosistema in un’ottica di sviluppo sostenibile.
- Analisi di effluenti tossici prodotti da incendio di stoccaggi di rifiuti
Dott.sa Giulia de Cet
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA INDUSTRIALE
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INGEGNERIA DELLA SICUREZZA CIVILE E INDUSTRIALEAnalisi di effluenti tossici prodotti da incendio di stoccaggi di rifiuti
Il territorio nazionale negli ultimi anni è stato frequentemente interessato da incendi in impianti di stoccaggio dei rifiuti sia di matrice incidentale che dolosa. Per prevenire tali fenomeni il Ministero dell’Ambiente, in data 15 marzo 2018, ha emanato la circolare recante le “Linee guida per la gestione operativa degli stoccaggi negli impianti di gestione dei rifiuti e per la prevenzione dei rischi”. La circolare individua i comuni criteri operativi per la gestione dei depositi di stoccaggio di rifiuti e fornisce gli strumenti utili per definire i rischi e quindi le modalità più opportune per prevenire tali eventi. Da tali linee guida emerge la continua necessità di elaborare adeguate procedure e metodologie nel campo della prevenzione e quindi di produrre circolari, linee guida e Regole tecniche verticali (RTV) al fine di orientare al meglio l’utenza. L’obiettivo della tesi è supportare i testi legislativi oggi presenti attraverso simulazioni di dispersione nell’ambiente degli effluenti tossici prodotti in caso di incendio in un sito di stoccaggio con l’ausilio di un software dedicato.
La prevenzione incendi ha la funzione preminente diretta a conseguire gli obiettivi di sicurezza della vita umana, di incolumità delle persone e di tutela dei beni e dell'ambiente. È sempre più indispensabile delineare dei criteri progettuali univoci, al fine di garantire la sicurezza strutturale, organizzativa e dell’individuo. Non è però stata ancora disciplinata una regola tecnica verticale secondo la struttura del Codice di prevenzione incendi. Proprio per questo, dall’applicazione pratica a casi reali, sono stati definiti i limiti ed evidenziati i punti che sarà necessario implementare per la redazione di una RTV per gli impianti di stoccaggio. I limiti riscontrati evidenziano come sia assolutamente necessaria la stesura di una regola tecnica verticale, ovvero ad hoc per gli impianti di stoccaggio che ponga particolare attenzione alla salvaguardia dell’ambiente.
La modellazione dello scenario di incendio è stata eseguita con il programma ALOFT. Il software risolve equazioni fluidodinamiche fondamentali; l’interfaccia grafica contiene gli input e gli output e un database di parametri di emissione modificabile dall’utente. Sono state eseguite delle simulazioni mirate alla valutazione dei possibili scenari di incendio di PE, PS e PET. Per ogni materiale si sono studiati 24 scenari: 12 per i rilasci di PM10 (particolato) e 12 per i VOC (composti organici volatili). Nei 12 casi è stata variata la distanza sottovento (1 e 5 km), la superficie del fuoco (50, 100 e 1000) e la velocità del vento e relativa classe di Pasquill (D5 e F2). Sono stati mantenuti costanti il valore della temperatura (25°C) e la classe di stabilità relativa alla temperatura (D). I dati ottenuti dalle simulazioni potranno essere utilizzati da enti come i Vigili del Fuoco e ARPAV. Il software infatti definisce dopo quanti metri e a quale altezza la nube dei rilasci si alza. Questo dato potrebbe essere utile a questi enti per determinare la corretta posizione a cui effettuare i rilevamenti. In conclusione, risulta evidente come la mancanza di un testo legislativo che disciplini la materia dei rifiuti trasversalmente crei non poche difficoltà già nella corretta progettazione delle strutture per lo stoccaggio dei rifiuti.
- Screening di varietà di frumento duro adatte alla coltivazione promiscua con olivo: un caso di studio in regime biologico nel sud della Francia
Dott.sa Anna Panozzo
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Agronomia Animali Alimenti Risorse Naturali e Ambiente
Corso di Laurea Magistrale in SCIENZE E TECNOLOGIE AGRARIEScreening di varietà di frumento duro adatte alla coltivazione promiscua con olivo:
un caso di studio in regime biologico nel sud della FranciaIl mio elaborato di tesi è il risultato dello stage di ricerca che ho realizzato presso l’INRA di Montpellier in Francia nel 2017. Questo stage faceva parte del progetto di ricerca europeo AGFORWARD “AGroFORestry that Will Advance Rural Development”, iniziato nel 2014 e conclusosi nel 2017. L’agroforestazione (agroforestry), o agroselvicoltura, è il termine con cui oggi si definisce il sistema della coltivazione promiscua, ovvero l’insieme dei sistemi agricoli che vedono la coltivazione di specie arboree e/o arbustive perenni, consociate a seminativi e/o pascoli, nella stessa unità di superficie. Il progetto AGFORWARD si poneva tra gli obiettivi quello di studiare e comprendere la presenza e l’estensione attuale dei sistemi agroforestali in Europa e di identificare soluzioni innovative appropriate da mettere in atto al fine di migliorare i benefici e la sostenibilità di questi sistemi.
In questo contesto, l’INRA di Montpellier ha aderito alla missione del progetto decidendo di studiare un sistema agroforestale basato sulla consociazione di grano duro e olivo nelle condizioni climatiche mediterranee del sud della Francia. La presenza, in questa regione, di oliveti a sesto tradizionale, con ampio spazio tra i filari, e a rischio abbandono per l’alternanza delle produzioni e la volatilità dei prezzi di mercato, possono trovare risposta nell’introduzione di una seconda coltura nel sistema, che permetta di ottimizzare l’uso di suolo arabile e che ne incrementi la sostenibilità grazie ad un aumento di produzione per unità di superficie. Al fine di valutare questo modello agroforestale, 25 varietà di frumento duro, tra cui moderne varietà e antiche popolazioni, sono state seminate per 4 anni nell’interfila di un oliveto di 0.5 ettari, e questo sistema d’agroforestry è stato confrontato con la coltivazione delle stesse 25 varietà in pieno campo senza la presenza di alberi.
Durante il mio stage, mi sono dunque occupata della raccolta dati dell’ultimo anno del progetto e ho avuto l’incarico di tirare le fila dei risultati ottenuti nei 4 anni. Lo studio del sistema agroforestale si è articolato in 5 filoni di ricerca, che costituiscono i 5 capitoli di cui è costituito l’elaborato di tesi:
- L’impatto dell’agroforestry sul microclima e sull’ambiente edafico. Riducendo la radiazione solare che raggiunge la coltura, gli alberi hanno determinato un effetto “buffer” nel ciclo diurno delle temperature, diminuendo quelle giornaliere fino a -2°C ed aumentando quelle notturne. La velocità del vento è stata ridotta e quindi anche l’evaporazione del suolo, permettendo una maggior conservazione dell’umidità.
- L’impatto dell’agroforestry sulla fenologia del grano duro. Il ciclo fenologico del grano coltivato nell’interfila ha mostrato un rallentamento da 2 a 9 giorni rispetto al pieno campo.
- L’impatto dell’agroforestry sulla resa e sulla morfologia delle varietà di grano studiate. La resa del grano coltivato nel sistema agroforestale è stata ridotta del 45% in media rispetto alla resa ottenuta in pieno campo. Un’ampia variabilità di risposta è stata però osservata nel set di varietà studiate, alcune delle quali hanno visto riduzioni < 10%.
- Screening delle varietà di grano duro adatte all’agroforestry: ricerca di un test appropriato. Le stesse varietà coltivate in campo sono state seminate anche in serra, in vaso, e posizionate sotto un tessuto ombreggiante mimante l’effetto delle canopies degli olivi. I risultati ottenuti in campo sono stati in parte simulati da questo test.
- L’impatto della coltura associata sulla produttività degli ulivi e sulla sostenibilità del sistema nel sua totalità. La produttività degli olivi non è stata danneggiata dalla lavorazione del terreno nell’interfila e, anzi, si è osservato un leggero aumento.
Fino a prima della seconda guerra mondiale anche il contesto territoriale italiano era basato su un sistema di coltivazione promiscua che vedeva gli alberi, sotto forma di siepi o filari, come protagonisti della produzione agricola. Si tratta di sistemi agroforestali tradizionali quali ad esempio la vite “maritata” agli alberi tipica delle campagne del centro e nord Italia, le intercolture di mais, soia o grano tra i pioppi in Piemonte, tra gli olivi in Umbria e in associazione con i noci in Campania: sistemi che sono stati progressivamente abbandonati per lasciare spazio alla meccanizzazione.
Lo studio dei sistemi agroforestali sta però conoscendo anche in Italia un interesse crescente da parte del mondo della ricerca e degli agricoltori, con una moderna agroforestazione che si ispira ai sistemi tradizionali e si adatta a contesti di gestioni moderne. In Italia, ad esempio, più di un milione di ettari di oliveti (Olea europea) sono a rischio di abbandono poiché il basso costo dell'olio di oliva e le politiche di disaccoppiamento dei sussidi dalla produzione hanno ridotto la reddittività di questa produzione. Un gruppo di ricerca umbro sta però valutando l’intercropping dell’olivo con l'asparago selvatico (Asparagus acutifolius), una specie che tende a crescere spontaneamente negli oliveti abbandonati ed ha un mercato già definito. Nella pianura Padana della Regione Veneto, invece, diversi enti sono impegnati nella valorizzazione del sistema silvoarabile agroforestale, con alberi ad alto fusto, come pioppi e querce (per la produzione di legname) consociati a cereali e altre colture seminative a rotazione.
I risultati ottenuti dal mio stage di ricerca in Francia, come le diverse esperienze italiane, mettono infine in luce come l’adozione dei sistemi agroforestali in Europa sia legata allo studio delle possibili consociazioni, tenendo conto delle esigenze specifiche dell’albero e della coltura e delle caratteristiche del contesto territoriale in cui sono inseriti.
- La trota marmorata (Salmo marmoratus, Cuvier 1829) in Friuli Venezia Giulia: minacce a carico di una specie endemica a rischio estinzione
Dott.Davide Lesa
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE PER L’AMBIENTE E LA NATURALa trota marmorata (Salmo marmoratus, Cuvier 1829) in Friuli Venezia Giulia:
minacce a carico di una specie endemica a rischio estinzioneLa trota marmorata (Salmo marmoratus, Cuvier 1829) è una specie endemica di alcuni bacini idrografici dell’Italia settentrionale che sfociano nell’alto mare Adriatico e rappresenta un importante tassello delle comunità ittiche negli ecosistemi lotici. A seguito del progressivo declino delle popolazioni, la riduzione del suo areale di distribuzione minaccia gravemente la sopravvivenza di questa specie che rappresenta l’unico salmonide autoctono del Friuli Venezia Giulia. Le cause della contrazione delle popolazioni di trota marmorata sono da ricercarsi nelle attività antropiche, in particolare la gestione delle risorse ittiche e le modificazioni ambientali, che hanno portato ad un depauperamento delle popolazioni locali e ad un declassamento dei corsi d’acqua, spesso resi inadatti alla vita delle comunità ittiche indigene. Al fine di tutelare la trota marmorata sono stati avviati progetti e piani d’azione che mediante ripopolamenti e/o reintroduzioni cercano di incrementare le popolazioni in declino. Le analisi condotte nei corsi d’acqua del Friuli Venezia Giulia hanno confermato la diminuzione della densità delle popolazioni di Salmo marmoratus, evidenziando oltremodo la necessità di tutelare e salvaguardare la specie migliorando qualitativamente e quantitativamente le popolazioni, ampliando il suo attuale areale ridotto e frammentato, tenendo in considerazione le esigenze ambientali di tale prezioso endemismo.
- La neofittizzazione degli habitat e la sua ripercussione sulle componenti vegetali e sull'entomofauna del carso dinarico italiano
Dott.sa Costanza Uboni
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
XXIX CICLO DEL DOTTORATO DI RICERCA IN AMBIENTE E VITA
Settore scientifico-disciplinare: Botanica ambientale e applicataLa neofittizzazione degli habitat e la sua ripercussione sulle componenti vegetali e sull'entomofauna del carso dinarico italiano
L’effetto delle specie esotiche o invasive, ovvero le specie che colonizzano aree in cui non sono naturalmente presenti o che vengono introdotte al di fuori del proprio areale di distribuzione, sta aumentando nell’era della globalizzazione anche a causa dei trasporti e delle attività umane. La dimensione umana delle invasioni è una componente fondamentale dei sistemi socio-ecologici, all’interno dei quali le invasioni vanno comprese e gestite. Tali specie possono portare all'estinzione di entità autoctone, diminuire la diversità biologica, e indurre cambiamenti radicali nel funzionamento degli ecosistemi. Una delle specie invasive più diffuse è Ailanthus altissima, un albero deciduo originario della Cina che, secondo il Global Invasive Species Database (2017), viene considerato una minaccia per la biodiversità mondiale. Esso presenta un’elevata capacità di riproduzione vegetativa, forma densi banchi radicali clonali, ha un'alta produzione di samare, e produce composti allelopatici che possono ridurre la crescita di altre specie e svolgono attività insetticida. A causa della mancanza di informazioni sull'impatto di A.altissima sugli artropodi terrestri, abbiamo deciso di studiarne l’effetto, per la prima volta a livello globale, sulle comunità di carabidi nel Carso Nord-Adriatico. La famiglia Carabidae, i coleotteri carabidi, rappresenta un gruppo di studio importante e adatto alla ricerca ecologica. Il primo risultato di questo studio mostra che il tipo di habitat, ovvero il gradiente di vegetazione, è il primo fattore che influenza la distribuzione dei carabidi nei siti di studio, con una suddivisione in specie tipiche di habitat aperti (specie termofile e prative), semiaperti (specie termofile silvicole), e chiusi (specie silvicole e forestali). Il secondo fattore che influenza la distribuzione dei carabidi è proprio A. altissima. Dove questa specie è presente, si evidenzia il numero maggiore di specie, a causa della presenza di specie generaliste e opportunistiche, tipiche delle aree degradate. A questo più alto numero di specie, però, corrispondono i più bassi valori in termini di beta-diversity, il che significa che A. altissima promuove una selezione locale sulla composizione in specie, inducendone l’omogeneizzazione. I nostri risultati hanno inoltre dimostrato un legame diretto tra le comunità di carabidi e le piante, in quanto entrambi i taxa rispondono alle medesime variabili (struttura della vegetazione, suoli, parametri ambientali) e sono influenzati in particolare dalla vegetazione autoctona. Ciò significa che quando il tipo di habitat cambia (da prato a bosco), anche la struttura autoctona della vegetazione cambia e, di conseguenza, cambiano anche le specie di carabidi e di piante. Al contrario, se consideriamo gli habitat invasi da A.altissima, in corrispondenza del cambiamento del tipo di habitat, la struttura della vegetazione e le comunità di carabidi rimangono pressoché invariati. Il tipo di habitat e la presenza di A. altissima sono i due fattori che influenzano anche la distribuzione dei tratti funzionali dei carabidi tra i siti, favorendo nuovamente specie onnivore e generaliste (entrambe più abbondanti nelle aree disturbate e degradate). Tali specie aumentano in presenza di A. altissima anche quando si analizza la Diversità Funzionale (FD), ovvero come la diversità delle interazioni fra le specie si esplica nei diversi siti, mentre una differenza consistente fra le comunità si rinviene solo tra gli habitat autoctoni (comunità più eterogenee). Tramite la tecnica del DNA-barcoding e utilizzando un protocollo da noi creato, abbiamo indagato la presenza del Senecio inaequidens, un’altra specie invasiva originaria del Sud Africa che produce alcaloidi pirrolizidinici che causano il cancro e problemi epatici, in 15 mieli del Carso. Anche se con pochissime sequenze, tale pianta è stata individuata in un campione. Grazie a questo secondo studio abbiamo anche validato l’importanza delle api nell’impollinazione degli agro-ecosistemi. Entrambe queste due specie invasive sono considerate come infestanti e dannose per la salute umana e la biodiversità dalla legge regionale del FVG L.R. 21 ottobre 2010, n. 17 (l’art. 64).
- Rimozione di farmaci dai reflui: trattamenti biologici a basso consumo energetico ed impatto ambientale
Dott. Giorgio Gallerani
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale Meccanica
Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria per l’ambiente e il territorioRimozione di farmaci dai reflui: trattamenti biologici a basso consumo energetico ed impatto ambientale
Il lavoro di Tesi in oggetto si propone come indagine preliminare riguardo la presenza e la possibile rimozione di alcuni micro-inquinanti dalle acque reflue civili.
L’emergente problema dei micro-inquinanti, primi fra tutti i farmaci, è una tematica che non è attualmente affrontata da alcuna normativa e per la quale non si dispone ancora di tecnologie e trattamenti progettati ad hoc.
L’interesse nasce dai risultati del progetto Pro Acqua (Ecoresearch et al., 2016). Dallo studio è emersa la presenza di farmaci in quantità non indifferenti all’interno dei reflui urbani conferiti agli impianti di depurazione ed è stato mostrato come gli impianti di fitodepurazione siano molto efficienti nel rimuovere la maggior parte dei composti analizzati. Le rimozioni rilevate sono in media superiori a quelle degli impianti di depurazione a fanghi attivi.
È stata dunque condotta una ricerca sullo stato dell’arte nella rimozione di 8 farmaci dai reflui civili. L’attenzione è stata focalizzata principalmente su carbamazepina e diclofenac, poiché molto indagati in letteratura a causa delle interazioni che possono avere con i rispettivi metaboliti.
Sono stati analizzati in maniera approfondita alcuni sistemi di fitodepurazione. L’indagine ha avuto luogo con un monitoraggio di dieci giorni con lo scopo di capire l’entità e le possibili cause della rimozione dei farmaci in ogni comparto della filiera di trattamento.
A causa dei vari processi che possono concorrere nell’abbattimento dei farmaci durante la fitodepurazione, si è condotto uno studio pratico focalizzato su una specifica via di degradazione biologica di carbamazepina e diclofenac, ossia il ruolo coperto da microalghe e batteri. Sono stati realizzati dei reattori pilota per studiare gli effetti di Chlorella vulgaris e di un mix composto di alghe e batteri. L’obiettivo degli esperimenti è stato quello di quantificare la capacità di rimozione dei due farmaci e valutare eventuali differenze tra le efficienze delle due configurazioni.
L’obbiettivo generale è quello di comprendere il destino dei farmaci all’interno dei sistemi di depurazione, focalizzando l’attenzione sulla fitodepurazione ed in particolare sulla rimozione da parte di microalghe e batteri, contribuendo così alla conoscenza dei meccanismi di rimozione biologica dei farmaci.
- Development of a solar system for water decontamination treatment
Dott.Giulio Mangherini
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Fisica e Scienze della Terra
Corso di Laurea Magistrale in FisicaDevelopment of a solar system for water decontamination treatment
The literature points out the possibility to employ Photoelectrochemical (PEC) cells not only for water electrolysis but also for water decontamination, with a similar photocatalytic setup [5]. The main components of a photoelectrochemical cell are the photoanode and the photocathode, both immersed in an electrolytic solution. Photocatalysis is a process that involves the activation of a photocatalyst with photon absorption, creating electron-holes pairs. Holes have enough energy to oxidise organic substances, which are contained in the water in contact with the photoanode surface, thanks to OH• radicals that mediate oxidation reactions [4,6]. Electrons instead can be easily collected at the cathode. HP Solar research project wants to exploit PEC cells to develop an innovative system for wastewater decontamination from organic pollutants using devices only powered with solar energy. For this reason, in HP Solar devices as photocatalyst was used tungsten trioxide (WO3) to the detriment of the more common titanium dioxide (TiO2), since the former is more efficient under sunlight illumination than the latter. Indeed, TiO2 works only in the range of UV radiation, instead WO3 absorbs also visible light up to 470nm [7,9], ensuring an efficiency increase of 50% [8]. The photocatalytic effect of WO3 can be boosted by biasing the photoanode with a Tandem Cell (TC) and coupling the system with the cathode. The bias is supplied by silicon photovoltaic cells (PV cells) in series and it can be used for the hydrogen production, exploiting the electrons accumulated on the cathode. Indeed, PV cells can provide a bias equal to 2.4 V exploiting the solar spectrum from 450nm to 1000nm [1- 3]. PV cells are also employed to power a microcontroller, which has the function of reversing the polarization between the electrodes, to guarantee a constant photoanode efficiency over time. The device assembly and the efficiency tests were the focus of this thesis.
Each component of the device was tested to highlight its performance, taking different measurements: the photoanode transmittance, the PV cells characteristic curve and the photocurrent produce by the oxidation reaction. This last parameter is strictly related to the amount of hydrogen produced by the device.
Tests performed on bare photoanodes seem to confirm that WO3 colloidal film is an excellent active material for PEC cells. Indeed, thanks to its physical properties, it can guarantee a wide absorption spectrum combined with greater stability in in harsh chemical environments.
However, measurements performed on encapsulated devices led to different results, even if they were carried out in the same working conditions. Indeed, obtained results have pointed out a WO3 delamination effect which decreases the efficiency of HP Solar system. This effect is probably due to pH solution value.
Therefore, tests performed during this research are a significant Proof of Concept concerning WO3 photocatalytic properties, but to move HP Solar system to a higher readiness level it is necessary to improve photoanodes effectiveness and stability.
Future intention will be to scale HP Solar system up, integrating it as pilot plant in the tertiary process of existing treatment plants. Obviously, after a complete laboratory validation, which starts form test cell in diluted solution for longer time and ends with the repetition of all tests with flowing water.
An alternative approach could be to identifying applications that allow the studied devices to work in solutions with low pH values.
- Zeoliti come potenziali carriers silicei di farmaci e aminoacidi: evidenze di adsorbimento su fau e ltl attraverso diffrazione neutronica
Dott.sa Antonietta Brunetti
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FERRARA
Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra
Corso di Laurea Magistrale in Scienze Geologiche, Georisorse e TerritorioZeoliti come potenziali carriers silicei di farmaci e aminoacidi: evidenze di adsorbimento su fau e ltl attraverso diffrazione neutronica
Nell'ultimo decennio, è stato dimostrato che le acque reflue domestiche contengono una varietà di contaminanti organici come prodotti farmaceutici e prodotti per la cura personale. La maggior parte di questi composti subisce sia una rimozione incompleta negli impianti di trattamento delle acque reflue che un lento degrado naturale, di conseguenza si trovano nelle acque superficiali che ricevono gli effluenti dagli impianti di trattamento [1]. Gli studi sui processi biologici convenzionali di trattamento dell'acqua potabile come la biofiltrazione hanno dimostrato che sono in gran parte inefficaci nella rimozione dei farmaci [2].
In letteratura, diversi lavori si sono concentrati sui vantaggi delle zeoliti come: alta selettività, cinetica rapida, ridotta interferenza da sostanze saline e umiche [3], eccellente resistenza alle sollecitazioni chimiche, biologiche, meccaniche e termiche [4-6 e riferimenti in essi]. Anche se le zeoliti sono più costose rispetto ad altri materiali adsorbenti, offrono la possibilità di essere rigenerate senza perdita di prestazioni a temperature relativamente basse [7-9].
In questo lavoro, sarà testata l’efficienza di adsorbimento di due differenti zeoliti nell’adsorbimento di farmaci (atenololo C14H22N2O3, ibuprofene C13H18O2) e aminoacidi (nello specifico L_Lisina C6H14N2O2). Tutte le molecole selezionate differiscono nelle proprietà chimiche e nelle dimensioni molecolari e per quanto riguarda i farmaci, sono contaminanti emergenti delle acque.
Nonostante il grande sforzo dedicato a questi studi, fino ad oggi, un numero limitato di indagini su zeoliti caricate con farmaci sono state effettuate mediante diffrazione a raggi X o neutronici per ottenere la posizione e la popolazione di siti degli atomi [8-9]. La diffrazione dei neutroni ha dimostrato di essere una tecnica potente per localizzare gli atomi. La zeolite Y con topologia faujasite (FAU) è stata scelta per l’adsorbimento dei due farmaci, ha un rapporto Si/Al di ca. 30 ed è caratterizzata da una struttura tridimensionale con una supercavità. La zeolite Y cristallizza nel sistema cubico, gruppo spaziale Fd-3m.
La zeolite L topologia linde type L (LTL) invece è stata selezionata per l’adsorbimento di L-lisina, caratterizzata da un canale monodimensionale delimitato da anelli a 12 tetraedri e un rapporto Si/Al pari a ca. 6. Queste zeoliti permettendo così l'ingresso di molecole piuttosto grandi, rendendo queste strutture potenzialmente utili nell'adsorbimento dei farmaci e aminoacidi oggetto di studio. I raffinamenti delle zeoliti, tal quale e caricate a temperatura ambiente, sono stati elaborati utilizzando il pacchetto GSAS [10], interfaccia EXPGUI [11]. La diffrazione neutronica ha permesso di localizzare e quantificare, attraverso le mappe di Fuorier, residui di densità elettonica attribuibili a
siti extraframework e di stimarne la loro concentrazione: ca. 11.55 % di ibuprofene e ca. 33.68 % di atenololo e 12.5 % di l-lisina.
Dopo l’immobilizzazione attraverso legami idrogeno, spesso mediate da acqua coadsorbita, si è osservata una distorsione degli anelli a dodici tetraedri.
Possiamo affermare che l’adsorbimento di materiale organico all’interno delle zeoliti, pur associandosi a deformazioni del framework, mantiene intatta l’impalcatura tetraedrica, che si adatta ad ospitare le guest molecules.
I risultati ottenuti testimoniano che l’analisi strutturale mediante diffrazione neutronica rappresenta una metodologia ideale e ottimale per identificare e quantificare molecole organiche adsorbite, costituite da atomi a basso numero atomico, più difficili da identificare mediante diffrazione da raggi X. Essendo stato verificato l’effettivo adsorbimento delle molecole ospiti all’interno delle zeoliti, l’obiettivo di questa tesi si può considerare raggiunto, confermando che le zeoliti rappresentano un materiale economico e rispettoso dell'ambiente ideale per applicazioni quali la rimozione di farmaci dai corpi idrici e come carriers silicei nella somministrazione di farmaci.
- Reintroduzione del pascolamento sul carso isontino, opinioni a confronto
Dott.sa Erica Salis
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE PER L’AMBIENTE E LA NATURAReintroduzione del pascolamento sul carso isontino, opinioni a confronto
Dopo la seconda guerra mondiale le attività di tipo pastorale, che fino ad allora si erano svolte sul carso, vennero progressivamente abbandonate per la loro scarsa redditività e il bosco cominciò ad avanzare, a discapito delle praterie erbose, andando incontro al fenomeno dell'incespugliamento.
Ciò significò una perdita progressiva della biodiversità della landa, oltre che la scomparsa definitiva, attorno agli anni '70, dell'attività zootecnica.
A partire dal 2010 il territorio carsico è stato protagonista del progetto di reintroduzione del pascolo con scopo di recuperare la landa carsica. Per il recupero della landa sono stati attivati, con gli agricoltori locali, protocolli di intesa che permettono l'occupazione temporanea dei terreni da destinare al pascolo a fini antincendio. L' obiettivo della tesi è quello di individuare i vantaggi e gli svantaggi della reintroduzione del pascolo interpellando tutti i possibili fruitori del carso attraverso il metodo di ricerca-azione e di un questionario che è stato sottoposto sia online sia in versione cartacea.
ABSTRACT
After the Second World War, pastoral activities, which until then had been carried out on the karst, were progressively abandoned due to their low profitability and the forest began to advance at the expense of grasslands, meeting the phenomenon of moss.
This meant a progressive loss of the biodiversity of the land, as well as the definitive disappearance, around the '70s, of the zootechnical activity.
Starting in 2010, the Karst area was the protagonist of the project to reintroduce the pasture with the aim of recovering the karst landscape. For the recovery of the land, protocols of understanding have been activated with local farmers, allowing temporary occupation of the land to be used for grazing for firefighting purposes. The aim of the thesis is to identify the advantages and disadvantages of the reintroduction of the pasture by questioning all possible users of the karst through the research-action method and a questionnaire that has been submitted both online and in print.
- Rethinking urban areas through low-carbon strategies and solutions. The need of sustainable housing for sustainable cities in developing countries.
Dott.sa Viola Angela Polesello
Università Iuav di Venezia
Dipartimento di Pianificazione e Progettazione in Ambienti Complessi
Master Universitario annuale di Secondo Livello in “ABC_Architecture Base Camp – Processi Costruttivi Sostenibili”Rethinking urban areas through low-carbon strategies and solutions.
The need of sustainable housing for sustainable cities in developing countries.Raggiungere e perseguire l’obiettivo di una drastica riduzione dei consumi energetici negli edifici, responsabili del 30% degli attuali consumi energetici e del 20% delle emissioni di CO2 in atmosfera, rappresenta oggi una sfida importante che impegna la ricerca sia a livello nazionale che internazionale.
Le temperature mondiali sono in costante aumento e il tasso di incremento sta via via accelerando: ciò a causa dell'aumento di concentrazioni di gas serra in atmosfera, responsabili del surriscaldamento globale e dei cambiamenti del clima. Gran parte degli abitanti più poveri del pianeta e degli ecosistemi più fragili e sensibili sono già costretti ad adattarsi alle odierne variazioni climatiche e agli effetti, talvolta disastrosi, che ne sono diretta conseguenza.
Non è così semplice valutare con certezza matematica l'impatto delle emissioni in atmosfera e vi è ancora incertezza in ambito scientifico per quel che attiene la capacità di previsione: tuttavia, disponiamo oggi di conoscenze sufficienti per riconoscere e poter affermare che esistono rischi enormi, potenzialmente catastrofici, fra cui lo scioglimento delle calotte polari in Groenlandia e nell'Antartide, le variazioni nel flusso della corrente oceanica del Golfo, l'acidificazione e l'innalzamento delle acque dei mari, o ancora l'arretramento delle foreste pluviali e la perdita di habitat e risorse naturali.
La prudenza e l'attenzione al futuro di coloro che verranno ci impone non solo di cominciare ad agire ma di agire ora per il bene dell'intero pianeta e dei suoi abitanti.
La tesi di ricerca svolta trova il suo fondamento iniziale in questo contesto e prende avvio da un’analisi del legame esistente tra edifici, aree urbane e livelli di inquinamento in atmosfera dovuti agli attuali consumi energetici.
Se anche si ritiene che il problema ambientale sia ormai di grande rilevanza, si finisce a volte con il riporlo come preoccupazione secondaria. In questo modo, l’ambiente non migliora e peggiora, al contempo, la qualità di vita in città: è quanto accade, in particolar modo, all’interno delle città dei paesi in via di sviluppo, dove la maggioranza delle persone risiede all'interno di insediamenti informali, o slum, poveri e sovraffollati.
Il mancato accesso a fonti di energia efficienti, la mancata erogazione dei servizi minimi di base, la proliferazione di alloggi costruiti su suoli non pianificati in condizioni di totale assenza di sicurezza e salubrità, rendono gli abitanti degli slums i più vulnerabili ai fenomeni naturali e, nel lungo periodo, i maggiori responsabili di emissioni inquinanti a causa del mancato accesso a fonti di energia efficienti e della condizione di estrema insalubrità in cui riversano gli alloggi, costruiti con materiali precari e tecniche approssimative.
Oggi, secondo i dati delle Nazioni Unite, i paesi in via di sviluppo con un tasso di urbanizzazione inferiore al 50% (cioè con una maggioranza di popolazione classificata come rurale) sono sempre meno.
Occorre però precisare che la nozione dell’eccessiva urbanizzazione e della città troppo grande non esiste, e chiarire piuttosto quali siano le possibilità di azione rispetto a problemi che sono di natura diversa da quelli che si presentano nelle città del Nord del pianeta e quali le opportunità che bisogna saper cogliere, anche queste del tutto diverse (Balbo M., 1992). Su questo concetto base, si sofferma l’ultimo capitolo della tesi che cerca di dimostrare, attraverso un approccio di ricerca di tipo sperimentale, come, grazie a semplici interventi progettuali, anche gli abitanti degli slums possano essere messi nella condizione di avere abitazioni sostenibili per contribuire alla costruzione di città più salubri, efficienti, inclusive e pulite.
Occorrono poche cose ma essenziali: è necessario passare da una molteplicità frammentaria di interventi ad un approccio integrato al tema che si collochi all’interno di un più evoluto sistema di good urban governance, capace di ri-orientare l’attuale modello di sviluppo verso un progetto di città giusta e sostenibile per un uso condiviso e più efficiente delle risorse attualmente disponibili.
Tra il 2000 e il 2004 circa 260 milioni di persone l’anno sono state colpite da una catastrofe climatica, oltre il 98% delle quali nei PVS: se nei paesi più ricchi le catastrofi naturali sono giunte a colpire un abitante su 1500, in quelle più povere il dato è di un abitante su venti (UNDP, 2007).
Non solo, ma si pensi ad esempio al problema dell’approvvigionamento di acqua pulita: oltre un miliardo di persone oggi non può far affidamento su di una fornitura continua di acqua potabile, mentre più di un terzo della popolazione mondiale non ha disposizione impianti fognari adeguati; di conseguenza, l’acqua di scarico viene riversata direttamente nei fiumi, provocando ogni anno milioni di vittime.
Occorre, dunque, un vero e proprio cambiamento nella gestione delle città e in particolar modo delle città del Sud del mondo, in cui, come ancora troppo spesso accade, non vi sia più il sostituirsi delle organizzazioni di volontariato o di cooperazione al ruolo dello Stato ma in cui, piuttosto, emerga una presa di coscienza dell’importanza delle iniziative di cooperazione decentrata promosse da amministrazioni locali, università e dal coinvolgimento degli abitanti di tutte le fasce della società.
In termini operativi:- fare poche cose ma essenziali;
- definire le regole alle quali dovrà attenersi chi fa;
- fare in modo che siano molti a fare, compresi gli abitanti più poveri che sono gli attori principali perché ogni giorno vivono la quotidianità e le sfide da vicino.
Significa comprendere come stanno le cose e procedere in modo preciso e trasparente; per ogni cosa che si propone deve essere chiaro quanto costa, chi lo paga, quanto il tempo necessario alla realizzazione, chi ci guadagna e chi eventualmente ci perde.
E se da un lato il cambiamento climatico rappresenta una sfida, dall’altro costituisce un’enorme opportunità perché lepolitiche indirizzate al miglioramento dell’ambiente possono e devono includere anche il miglioramento della vita sociale dei cittadini: soluzioni ecologiche e sociali possono sostenersi le une con le altre, contribuendo alla realizzazione di città più salubri, vivibili, eque e inclusive.
Un compito tutt’altro che semplice da attuare ma possibile se cambieremo il modo attraverso cui guardare queste città. - Contabilità dei gas serra: il caso dell’unità territoriale intercomunale (UTI) Carso - Isonzo - Adriatico
Dott.sa Marta Tardivo
Università degli Studi di Siena
Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente
Corso di Laurea Magistrale in Ecotossicologia e Sostenibilità AmbientaleContabilità dei gas serra: il caso dell’unità territoriale intercomunale (UTI) Carso - Isonzo - Adriatico
L’aumento in atmosfera delle emissioni di gas serra di origine antropica, in particolar modo anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido d’azoto (N2O), rappresenta la causa dominante dell’innalzamento delle temperature terrestri a partire dalla metà del XX secolo.
Per una pubblica amministrazione, essere consapevole delle proprie emissioni è il primo passo da fare per l’applicazione di future politiche ambientali a livello territoriale. Ciò è reso possibile dalla compilazione di appositi inventari per la contabilizzazione dei gas ad effetto serra, come stabilito dalle linee guida redatte dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).
In questo studio è stato scelto di applicare tale strumento ad una nuova realtà amministrativa istituita nel 2014 nella Regione Friuli Venezia Giulia, l’Unione Territoriale Intercomunale (UTI), in particolare analizzando come caso studio la UTI Carso-Isonzo-Adriatico. Tenendo conto degli assorbimenti da parte delle colture legnose ed agrarie, sono state stimate le emissioni di origine antropogenica prodotte dal settore energetico, da processi industriali, dai rifiuti, in agricoltura, dalle foreste e da altri usi del suolo. I risultati ottenuti dimostrano che le emissioni stimate sono pari a 531.952 t CO2-eq e che l’area esaminata ha una percentuale di abbattimento delle emissioni del 5%. Le emissioni provengono in prevalenza dalla combustione di fonti fossili per i consumi di energia elettrica da termoelettrico, dal settore dei trasporti e dalla combustione per il riscaldamento pubblico e privato.
Questo studio rappresenta uno strumento utile ad ogni Comune della UTI per prendere consapevolezza delle proprie emissioni e per sviluppare politiche e programmi volti alla riduzione dei gas serra e dei consumi energetici, rappresentando un esempio di contabilità ambientale da affiancare alla contabilità economica per una miglior gestione del territorio. Il 2014, preso in considerazione quale anno di riferimento per il presente studio, può essere ritenuto l’anno zero da cui proseguire l’aggiornamento dell’Inventario dei gas serra elaborato nel presente lavoro. L’utilizzo della metodologia IPCC permette agli Enti Locali di ottenere la certificazione ISO 14064-1, per la validazione della rendicontazione dell’inventario.
- Il ruolo della musica nelle preferenze per la gestione delle Reti di Riserve: il caso studio del Monte Baldo e le possibili proposte per la futura Rete Pasubio-Lessini
Dott.sa Giulia Trainotti
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento di Economia e Management
Corso di Laurea Magistrale in Management della Sostenibilità e del TurismoIl ruolo della musica nelle preferenze per la gestione delle Reti di Riserve: il caso studio del Monte Baldo e le possibili proposte per la futura Rete Pasubio-Lessini
La musica risulta essere uno dei fattori che può essere utilizzato per creare il cosiddetto “ambiente sensoriale”, un contesto in cui i giudizi e le percezioni degli individui su luoghi, beni o servizi possono essere influenzati. (Guéguen, 2009).
Molti sono gli studi citati nell’elaborato che dimostrano gli effetti della musica, non solo sul comportamento, le percezioni e le scelte degli individui, ma anche a livello cognitivo.
Lo studio si propone di analizzare se e quanto la musica abbia influenzato le disponibilità a pagare e le preferenze dei visitatori del Parco Naturale Locale del Monte Baldo in riferimento alle misure di gestione e al modello di governance di questo e se abbia un’influenza sulle emozioni dei rispondenti, sulle valutazioni di alcune caratteristiche del questionario e sul tempo di compilazione percepito da questi.
In particolare lo studio si propone di capire se i visitatori preferiscano una gestione locale, promossa dalla Rete di Riserva, o una gestione centralizzata a livello provinciale. Per valutare le preferenze e disponibilità a pagare dei visitatori è stato eseguito un Discrete Choice Experiment, una tecnica di stima delle preferenze appartenente ai metodi delle “preferenze espresse”. I risultati ricavati dal casostudio del Monte Baldo saranno, inoltre, utili per la costruzione e la promozione delle future Reti di Riserve, tra cui vi è la vicina Rete Pasubio-Lessini, che potrà utilizzare i risultati della ricerca per meglio organizzare la gestione della stessa in base alle preferenze dei visitatori. Nell’elaborato si è anche descritta la storia ed il declino della Lessinia trentina, una località che entrerà a fare parte della Rete Pasubio-Lessini e il cui territorio potrebbe essere rilanciato proprio grazie al sistema di gestione delle Reti di Riserve.Grazie ai risultati ottenuti con i modelli di stima impiegati sul campione totale di visitatori, si è capito che i visitatori del Parco del Monte Baldo preferiscono la gestione locale delle Reti di Riserve, che favorisce progetti sviluppati e sostenuti dalla popolazione che vive nel Parco, alla gestione centralizzata a livello 2 provinciale. Dai risultati appare che i rispondenti abbiano dato grande importanza all’attributo sentieri, soprattutto per quanto riguarda la valorizzazione di questi per mezzo di cartellonistica e la fornitura di materiale cartaceo e digitale di supporto.
L’attributo, invece, che è risultato meno importante agli occhi dei visitatori risulta essere la biodiversità floristica con relative misure di protezione, che presenta valori molto bassi sia nei coefficienti, sia nella disponibilità a pagare.In conclusione si può affermare che lo studio è riuscito a fornire importanti implicazioni in ambito metodologico, dimostrando che la musica non interferisce in modo significativo sulle preferenze dei rispondenti, ma riesce ad attenuare i livelli di stress dovuti alla compilazione, rendendo così la compilazione del questionario più piacevole e veloce. Inoltre lo studio ha fornito informazioni di policy utili, che possono essere utilizzate dagli enti di gestione e promozione delle Reti di Riserve. Informazioni utili anche per la progettazione delle nuove Reti di Riserva, tra cui la Pasubio-Lessini, visto che i risultati hanno evidenziato come l’elemento fondamentale per i visitatori risulti essere la valorizzazione dei sentieri, ma se opportunamente spiegate e pubblicizzate sono ben accette anche le misure di protezione della biodiversità, che rappresentano lo scopo principale delle Reti di Riserve.
- D'acqua, di rocce e di fronde. Il Geoparco del Carso e l'area di Doberdò
Dott.sa Elisa Cricrì
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
Tesi di Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura
Laboratorio di progettazione integrata della città, del territorio e del paesaggioD'acqua, di rocce e di fronde. Il Geoparco del Carso e l'area di Doberdò
Il Carso è un territorio che ospita un patrimonio naturale, geologico e culturale straordinario. Esso non conosce confini amministrativi o limiti tra il sotterraneo e la superficie. In questa tesi di laurea in Architettura viene verificato che, seppur esistano determinati strumenti di tutela per i diversi patrimoni, essi faticano a comunicare tra loro; viene quindi introdotto e posto in analisi lo strumento del Geoparco, con lo scopo di comprenderne il funzionamento, individuare l’area di sviluppo del Carso, (indipendentemente dai confini amministrativi) per gestirla attraverso l'approssimazione di un unico grande masterplan, qui svoluppato a livello di concept.
Il masterplan, che cerca di individuare e mettere a rete le risorse esistenti sul territorio oggetto dell'indagine, viene quindi approfondito con il progetto di paesaggio di una delle possibili porte a Ovest del Geoparco, caratterizzata dalla presenza di acqua, rocce e fronde:il Geosito del Lago di Doberdò. Un’area ad alto contenuto di biodiversità, la quale viene analizzata ed inserita come elemento attorno cui si incardina il progetto.
Un progetto che si posa sull'area con lo scopo di migliorarne la fruizione ma sempre con grande riguardo verso l'importante patrimonio presente in questo importante Geosito. Oltre al lato prettamente pratico, il progetto esplora le caratteristiche del lago interpretandole da un punto di vista paesaggistico andando a definire le "stanze" che il percorso attraversa durante la visita e che, solo con pochi e delicati interventi puntuali, possono contribuire ad esaltare il patrimonio naturale che insiste nei vari settori del Lago.
- Analisi delle proprietà meccaniche di campioni realizzati con una stampante 3D low cost, mediante l’utilizzo di filamenti in PLA vergine e riciclato
Dott. Mario Russo
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA CAMPANIA
Corso di Laurea Triennale in Ingegneria Aerospaziale-Meccanica
Tesi di Laurea in Disegno Assistito al CalcolatoreAnalisi delle proprietà meccaniche di campioni realizzati con una stampante 3D low cost, mediante l’utilizzo di filamenti in PLA vergine e riciclato
La Stampa e gli esperti internazionali hanno definito la Stampa 3D come la rivoluzione industriale di questo secolo. Negli ultimi anni, la tecnologia del 3D Printing ha permesso di creare oggetti in ogni settore: gioielleria, arte, automotive, medicina e molti altri. Il presente studio è stato effettuato presso il laboratorio CREAMI (Centro di Reverse Engineering e Additive Manufacturing Innovation) dell'Università degli Studi di Napoli Federico II e Fraunhofer Joint Lab IDEAS (Interactive DEsign And Simulation). Il tutto è stato svolto in collaborazione alla Università della Campania Luigi Vanvitelli, con lo scopo di migliorare la nostra conoscenza sulla tecnologia additiva e assistere le persone nella corretta selezione dei parametri di processo. Esaminando il contesto scientifico, si può notare che l'indagine sull’uso di stampanti 3D open-source a basso costo non sta ricevendo molta attenzione e questa scarsa presenza di informazioni ha suscitato il nostro interesse. Questo ci ha portato a sperimentare nuove metodologie e materiali, nello specifico il PLA, che potrebbero essere utilizzate in un futuro molto recente. In particolare lo studio condotto mira ad analizzare la variazione delle proprietà meccaniche di campioni realizzati tramite stampanti 3D low-cost mediante l’uso di filamenti di acido polilattico (PLA) vergine e riciclato. E’ stato scelto il PLA per le sue proprietà reologiche e la sua capacità di essere facilmente processabile e biodegradabile, caratteristiche fondamentali al giorno d’oggi per ridurre l’inquinamento, dovuto ad una cattiva gestione dei rifiuti e del loro smaltimento. La sperimentazione è stata effettuata sulla base di un set di 21 campioni, ottenuti con l’uso della stampante Rep-Rap Prusa I3 e successivamente sottoposti a prove di trazione fino a rottura con la macchina JJ INSTRUMENT T5002. Una volta testati, i provini hanno subito un processo di riciclaggio, che ha permesso il riutilizzo del materiale distrutto e ha consentito di ripetere l’operazione 2 volte.